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Pensare positivo: il lato oscuro

L’aveva vista lunga Steve Jobs – o chi per lui si occupava di marketing – creando uno slogan che, anziché proporre di pensare positivo, propose il noto “Think Different” – pensa in modo diverso, alternativo -.

Think Different o Think Positive?

Il Think Different è un bel messaggio. Apre alle possibilità e ha valenza in diversi contesti: può scappare come esclamazione durante una riunione aziendale, può emergere come riflessione durante un percorso psicologico o come atto creativo nel valorizzare una ricetta quando mancano gli ingredienti principali.

Bello, il Think Different, mentre sarebbe stato meno “universale” un Think Positive (pensa positivo), perché, spero di non deluderti, il pensare positivo ha anche un lato oscuro.

Pensare positivo è utile

Nel 1994, Higgins propose uno studio in cui un gruppo di adulti risultò avere migliori possibilità di sopravvivere psicologicamente a storie personali traumatiche grazie a capacità quali il pensare positivo e la resilienza.

In effetti, per l’essere umano, un atteggiamento positivo può essere di grande stimolo al recupero. Per questa ragione, continuano ad avere valore terapeutico tecniche veicolate dalla cornice della psicologia positiva di Seligman e strumenti di empowerment. In alcuni percorsi, la possibilità di aumentare la capacità di pensiero positivo è precursore essenziale per la rinascita della persona. Si ricercano attraverso la psicologia positiva tutti gli aspetti personali e del contesto che possano aiutare a vivere le difficoltà con la consapevolezza delle proprie risorse e della fiducia in esse.

Tuttavia, esistono situazioni cliniche diverse in cui incentivare il pensiero positivo può, addirittura, essere dannoso. Accade quando il clinico incontra persone apparentemente già avvezze a notare e utilizzare le proprie risorse che, tuttavia, stanno fingendo. In quel caso, incoraggiare al “pensiero positivo” è incoraggiare alla finzione anziché alla consapevolezza di sè.

Fingere di pensare positivo

La questione, lo avrai capito, è più complessa di quanto parrebbe. Vado al dunque: alcune persone sopravvissute ai traumi fingono il pensiero positivo. Fingono con gli altri e con se stessi, anche per anni.

Queste persone, apparentemente a proprio agio nel mondo, possono giungere nello studio dello psicologo per questioni contingenti: la perdita del lavoro, una questione relazionale, un’esperienza di attacco d’ansia… L’episodio ha esacerbato la loro vulnerabilità e, loro, non sono abituati a farne i conti. Protestano e non comprendono la difficoltà contingente, si descrivono come persone forti e mostrano perplessità di fronte alla fragilità attuale. Non si riconoscono.

Aiutare chi ha imparato a fingere

È difficile, davvero, aiutare chi ha imparato a fingere. L’aiuto passa attraverso la relazione con lo psicologo e il cliente è incoraggiato a esprimere ciò che prova e a vivere a braccetto con la propria vulnerabilità. Quando il cliente minimizza il significato di eventi traumatici e assume un atteggiamento emotivamente distaccato, va aiutato a riconoscere il meccanismo di evitamento. Probabilmente esso ha radici nello stile di attaccamento alle figure di riferimento dell’infanzia.

La complessità di questo tipo di lavoro psicologico consiste nell’intervento sincrono che implica, per il clinico:

  • mostrare al cliente il meccanismo – sfidando la sua posizione –
  • abbracciare le distanze che potrà mettere tra loro
  • consentirgli di conoscere la sua (del clinico) vulnerabilità – tutta umana –
  • permettere al cliente di scegliere se accoglierla e accogliere insieme la propria vulnerabilità oppure no

Due facce della stessa medaglia

Accogliere la vulnerabilità non significa rinunciare alla propria forza. Le due facce possono coesistere. Una persona può reagire con forza a certi eventi e con vulnerabilità ad altri oppure avere entrambe le reazioni in momenti diversi, per lo stesso evento.

Accogliere la vulnerabilità non significa rinunciare al pensiero positivo, ma calibrarlo, riconoscerne l’utilità eppure notare quando serve solo per mascherare un dolore e non permette di elaborare con consapevolezza i propri vissuti emotivi.

Cosa si intende, quindi, per lato oscuro del pensare positivo?

Il lato oscuro del pensare positivo è quel lato che mette in ombra ciò che senti davvero, ti impedisce di dire la tua, di assumerti la responsabilità delle tue emozioni e permetterti di comunicarle senza timore di mettere a repentaglio le relazioni importanti.

Pensare positivo è un possibile motore al buon vivere, ma diventa un freno a mano in corsa, tirato fino a puzzare di bruciato, quando è usato come camouflage del dolore.

Forse non potrai riconoscerti in questo articolo, ma se ci riuscissi… metti in agenda di concederti la possibilità di un colloquio psicologico.

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