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Attenzione! Potreste essere in disaccordo! Leggere con disponibilità 🙂

Se avete scelto di leggere questo articolo, allora vi svelo subito quali sono i due punti su cui è richiesta disponibilità:

  1. Disponibilità a conoscere la storia di un esperimento che usò una procedura invasiva
  2. Disponibilità alle conclusioni che si possono trarre da questo esperimento

L’esperimento è quello di Seligman e Maier che, nel 1976, hanno condotto uno studio per valutare l’atteggiamento di alcuni cani di fronte ad eventi spiacevoli.

I cani erano posizionati in gabbie all’interno delle quali venivano somministrate, a tratti, delle scosse [primo appello alla disponibilità!]. Alcuni cani, premendo una leva, potevano interrompere la somministrazione della scossa; altri cani, invece, pur premendo la leva, non potevano bloccare le scariche.

In seguito, gli stessi cani, vennero posizionati in gabbie aperte da un lato, da cui era possibile uscire con un saltello. Anche in questo caso vennero somministrate delle scosse.

Ebbene…

I cani che, nella prima parte dell’esperimento, premendo la leva erano riusciti a fermare le scariche elettriche, rapidamente scappavano dalla gabbia, allontanandosi dallo stimolo spiacevole.

I cani che, invece, avevano vissuto l’impossibilità di fermare le scariche, sebbene avessero la possibilità di uscire dalla gabbia, rimanevano paralizzati al suo interno.

Senso di Impotenza e Rinuncia.

Arrivati a questo punto della narrazione potreste provare indignazione per gli animali. Avete ragione e, infatti, gli esperimenti furono sospesi perché considerati non in linea con l’etica richiesta alla ricerca.

Non è, però, finita qui. Seligman provò a “riabilitare” il movimento e la capacità di uscire dalla gabbia dei cani in due modi:

  1. Mostrando all’animale come uscire dalla gabbia
  2. Muovendo le zampe ai cani e aiutandoli a ricordare il movimento da fare e sentirsi autorizzati a compierlo, per allontanarsi dalle scosse.

Il primo risultò inefficace: dopo aver visto qualcuno uscire dalla gabbia e farcela, il cane abituato all’impotenza, non cambiava il suo comportamento e restava paralizzato nella gabbia.

Il secondo funzionò: dopo 4-5 interventi di riabilitazione, i cani riappresero la capacità di allontanarsi dallo stimolo spiacevole.

Lo studio venne replicato con esseri umani sostituendo la scossa con un rumore sgradevole. Stessi risultati.

Venne coniata l’ espressione di Impotenza appresa.

Si tratta della condizione in cui si considera inutile agire comportamenti che possano risolvere la situazione problematica o stressante. E’ detta “appresa” perché si è costruita sulla base di esperienze precedenti.

La convinzione per cui “Anche se faccio, è inutile” origina una situazione di stallo in cui la persona resta in attesa che qualcosa si modifichi all’esterno, non cercando altre soluzioni, non intervenendo in alcun modo sulla sua storia o, per lo meno, su questa parte della sua storia.

Osservare altri farcela, non solo non aiuta (ricordate i cani?), ma crea, anche, la sensazione di avere qualcosa di sbagliato.

A lungo termine, l’impotenza appresa può avere rispercussioni su autostima, umore, relazioni, attività quotidiane, gestione delle emozioni…

Nell’esperimento, la riabilitazione permise ai cani di recuperare energia, fiducia e brio. Al di fuori del laboratorio, nella quotidianità, un intervento riabilitativo (e di sostegno) psicologico può permettere alle persone di ricordare di avere gli strumenti per reagire agli stimoli spiacevoli, di (re) imparare ad usarli e di autorizzarsi a farlo.

Questo è il secondo punto su cui va fatto appello alla disponibilità. La disponibilità a mettersi in gioco.colorful-1197317_960_720

Anche se sembra di non poter fare nulla, anche se una cosa sembra essere accaduta così tante volte da sembrare permanente e pervasiva, anche se si pensa di avere qualcosa di sbagliato, c’è sempre la possibilità di essere autori di una svolta.

Qualche altro piccolo suggerimento…

  • Stare alla larga dalle generalizzazioni: una cosa spiacevole accaduta, è una cosa spiacevole accaduta. Potete ricordarne un’altra, anche piccola, piacevole?
  • Ricordare che chi riesce è perché pensa di poterlo fare. Cosa succederebbe se provaste a pensare di poterlo fare? Non dico che lo facciate, ma se pensaste di poterlo fare, secondo voi, cosa fareste per uscire dalla gabbia?

Dott.ssa Francesca Fontanella

Riferimenti bibliografici

Seligman M. E. P & Maier S. F., (1976). Learned helplessness: Theory and evidence, Journal of Experimental Psychology: General, 105, pp. 3-46.

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